
L’attenzione delle aziende verso l’employee retention deve essere prioritaria in questo momento storico, perché un basso indice di turnover all’interno delle risorse umane incide molto sul potersi costruire una storia lavorativa che conquisti le persone ed ispiri loro fiducia. Per il 69% delle organizzazioni italiane questo indice è salito tra il 2021 ed il 2022 e la gravità di questo dato non è stato immediatamente recepita; non è da meno lo scenario oltreoceano, dove negli USA il tasso di abbandono dell’impiego registra continui aumenti dal 2021 (Great Resignation).
La ripresa lavorativa a pieno regime delle persone ha sicuramente trascinato con sé insicurezze ed insoddisfazioni che potevano essere latenti da tempo ed il numero crescente di dimissioni volontarie non ha allarmato in modo sensibile il mercato italiano, che rimane rigido e poco affine a sondare le ragioni di fondo di questo mood. L’ introduzione dello smart working, sebbene inizialmente accolta in modo scettico e poco visionario, è stata invece oggetto di una grande rivalutazione da parte di alcune tipologie di lavoratori che ne hanno fatto quasi una condizione imprescindibile nella ricerca di un nuovo impiego.
L’ inversione di marcia effettuata da parte di molti imprenditori riguardo l’opzione lavorativa da remoto ha quindi contribuito ad acutizzare certe situazioni di disagio che sono poi inevitabilmente sfociate in un abbondono del posto di lavoro. Si rende quindi evidente come nel management di una impresa sia d’obbligo rendere l’indice di turnover il più basso possibile, aumentando invece la qualità dell’onboarding e la fidelizzazione dei collaboratori che possono divenire tra i migliori ambasciatori dell’azienda stessa.
Ecco perché questo parametro deve rappresentare un KPI (Key Performance Indicator) cardine nella conduzione aziendale, simbolo del successo o dell’incapacità nel mantenere le persone motivate e partecipi all’interno del team lavorativi. Nel caso si dovesse verificare un caso di dimissioni il datore di lavoro deve analizzare a fondo le cause primarie di tale avvenimento, magari proponendo una exit interview alla persona interessata, facendo in modo di mantenere una forza lavoro stabile, focalizzata e produttiva. Assumere le persone e costruire con loro un rapporto solido e duraturo è un processo molto delicato la cui riuscita risulta sensibile a fattori multipli, non sempre prevedibili, come scelte personali o motivi familiari; nonostante ciò, l’impresa deve sempre operare nell’ottica di una crescita sinergica con le persone, investendo su di esse.
Come può incidere l’abbandono di una persona sul Team? Essenzialmente con un abbassamento del morale generale, dovuto principalmente all’effetto che la perdita di un/a collega con il/la quale ci si trovava bene ha su chi è rimasto. Non si deve sottovalutare come questo possa sordidamente intaccare l’entusiasmo e l’efficienza lavorativa nel caso in cui l’operato delle persone non sia mosso dalla fiducia e dal senso di far parte di qualcosa in cui credono.
Ma gli strascichi vanno anche oltre poiché non è da tralasciare l’impatto economico che un abbandono in azienda può avere: un impatto sui lavori che quella persona stava svolgendo. un momentaneo ma significativo aumento dei costi dovuti al doversi appoggiare a una struttura esterna di recruiting ed il necessario training della nuova figura (che vede sottrarre tempo di altre risorse). I datori di lavoro devono puntare a creare un ambiente di lavoro gratificante, dei salari competitivi inclusivi di pacchetti benefits, un programma di onboarding ottimizzato, permettendo così il crearsi di una sana forza di spinta verso gli obiettivi ed una crescita professionale degli individui. Abbassare il tasso di turnover è fattibile solo se si adotta una mentalità volta tanto al trovare talenti quanto ad inglobare delle retention strategies nella propria azienda: i due fenomeni devono coesistere e crescere parallelamente.
Voi quanto vi soffermate a soppesare questi fattori? Date loro il giusto peso nella vostra attività?
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